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invisibile da Napoli scendeva verso Ottaiano, m’indusse a portarmi una terza volta al Vesuvio, ed appena giunto ai piedi del monte, e sceso dal mio legnetto a due ruote, tirato da un cavallo solo, mi si presentarono tosto quelle due guide, che mi avevano accompagnato nella mia precedente ascensione con Tischbein. Li presi entrambi, l’uno per abitudine e per riconoscenza, l’altro per la fiducia che riponevo in lui, ed entrambi poi, per maggiore mio comodo.

Giunti in alto, uno dei due rimase a custodia dei bagagli e dei viveri; il più giovane mi seguì, e ci avviammo corraggiosamente in direzione di un fumo denso, il quale sboccava dal monte, al basso del cono, dove si apre il cratére; scendemmo quindi alquanto sul fianco della pendice, finchè finalmente, vedemmo a cielo aperto sboccare la lava da quei cupi vortici, di denso fumo.

Per quanto si sia udito parlare le mille volte di una cosa, la vista immediata di quella, vale sempre meglio a farla comprendere, a darne idea, che qualsiasi discorso. Il torrente di lava era ristretto, non guari più largo forse, di dieci piedi; il modo però col quale correva lentamente, formando una superficie abbastanza piana ed uguale; era degno di essere osservato, imperocchè nel mentre seguendo il suo corso si va raffredando sui lati ed alla superficie, forma una specie di canale, il quale si va di continuo rialzando per la materia fusa, la quale corre al dissotto, e che rigetta scorie alla superficie a diritta ed a sinistra, in guisa che formano queste quasi due argini, fra cui il fiume di fuoco continua la sua strada, nè più nè meno, che il canale di un molino. Camminammo in cima ad uno di quegli argini, e le scorie rotolavano giù per i fianchi di quello sotto ai nostri piedi, e da alcuni vani del canale, potemmo osservare d’alto in basso il corso della lava al dissotto della crosta già quasi solidificata, del torrente infuocato.

Il sole era limpidissimo, e menomava lo splendore del fuoco, e poco fumo leggiero, si sollevava nell’atmosfera