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mancato di osservare parecchie cose, e mi gioveranno un altra volta a darne conto, alcuni appunti presi sul luogo, ed uno schizzo di Tischbein; questa sera mi sarebbe di di tutta impossibilità, aggiungere un parola sola a quanto ho scritto.


Il 2 Marzo.

Sono salito in cima al Vesuvio, tuttochè il tempo fosse cupo, e la vetta del monte coperta di nuvole. Mi recai in carozza sino a Resina, di là salii il monte fra le vigne, a cavallo di un mulo; quindi proseguii a piedi, sulla lava del settantuno, la quale è già ricoperta di vegetazione; poi presi a camminare sulla lava, lasciando alla mia sinistra, in alto, la casipola dell’eremita. Di là convenne salire per le ceneri, e fu dura impresa. Il monte era ricoperto per un terzo dalle nuvole. Finalmente arrivammo all’antico cratére, ora riempito; trovammo lava recente di due mesi, di quindici giorni, di quella pure recentissima di cinque giorni, già raffreddata. Varcata quella, arrivammo ad una sommità volcanica, dove il fumo usciva da ogni parte; il vento però lo allontanava alquanto da noi, ed io volli avvicinarmi al cratére, se non che, fatti forse una cinquantina di passi il fumo diventò così fitto, che a mala pena io poteva vedere i miei piedi. A nulla mi giovava il tenere il fazzoletto davanti alla bocca; avevo perduto di vista la mia guida pure; il camminare sulle scorie eruttate dal volcano diventava pericoloso, e ritenni prudente ribattere strada, e riservarmi ad altra giornata più chiara, ed in cui fosse minore il fumo, per godere la vista che io mi riprometteva. Intanto ho provato per esperienza quanto sia malagevole cosa il respirare in quell’atmosfera.

Del resto il volcano era tranquillissimo. Non si scorgevano fiamme; non si udivano boati; il monte non lanciava sassi per aria, siccome ha fatto sempre da alcun tempo. Potrei dire averlo esplorato, per poterlo prenderlo d’assalto, non sì tosto il tempo si farà migliore.