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Dina Calli sono o sarebbero piuttosto l’inappagata irrequietudine, la vivacità ironica, l’incertezza meditatrice: i momenti più felici anche nella sua decadenza di capocomica, consistono in quelle battute di spontaneità e di ingenuità nate dopo un attimo di sospensione riflessiva.

Dina Galli è riuscita a soffocare queste doti in una statica maniera. Era una delicata curiosità questo suo recitare con ansia le commedie allegre come cose difficili e serie, o addirittura come crisi poetiche: si potevano ottenere effetti completi e figure intere dall’arguzia iniziale dello spunto alla severa compitezza del soggetto fisico. Anche adesso la sua finzione dell’ingenua non è senza efficacia d’arte (Chopin).

Ma irrigidite queste qualità, costruite la maniera dello «spontaneo» e dell’«ingenuo» e avrete la Galli in Scampolo.

Nulla più che la bambina come la possono guardare e vedere gli occhi maliziosi dei grandi. Lo scherzo più sguaiato si alterna col sentimentalismo più floscio di un’opera pedestremente parigina. La Galli, come bimba selvaggia (Demonietto, Scampolo. La Monella) pare l’ultimo ninnolo creato per il divertimento degli uomini.

Questa birichineria di maniera le si è così connaturata che ella la viene servendo in tutti i modi anche dove è più inopportuna, complice il mal gusto di Guasti e l’incoraggiamento dei più sempliciotti.

Eppure quando ella si sforza ancora di essere qualcosa e non il gioco del pubblico, l’antica efficacia ritorna: pensate com’è gustosa e misurata e armonica la satira del teatro di Varietà che ella offre con superiore spensieratezza nei Teodoro e Soci, pensate come sono vive (anche