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un sogno. Gravissimo errore estetico si nasconde nell’aver determinato i rapporti tra Laerte e Ofelia: l’esistenza di un fratello (di un fratello, ahimè, moralista e predicatore) dà troppa realtà empirica a una figura, per cui già il padre, necessario per un certo senso (perchè sia vinto e calpestato dall’amore, che si nega e si contraddice poi nella pazzia e nella morte), è, per un altro, ridondante, (per la purezza evanescente della fantastica Ofelia, figlia soltanto dell’assidua ricerca di Amleto). E Laerte (al quale è affidato il compito di uccidere Amleto: il popolo che nella sua ultima vibrazione eroica distrugge il suo ideale troppo ideale) non può esplicarsi serenamente nella tragedia e resta scarno e retorico come un sopravissuco (psicologicamente ed esteticamente) limitato ad una funzione di astratta eticità.

Ma qui il buon Zacconi potrebbe argutamente interromperci: così non la penso io, e se voi mi chiedete Amleto io vi rispondo chiamando con il nome fortunato l’ultimo trucco della mia scienza. E questa risposta avrebbe il plauso di Enrico Ferri come le complicazioni di Ruggeri troverebbero un apologista in Arturo Graf; nè una cronaca teatrale, registrato il compiacimento del pubblico, saprebbe che obbiettare. Infatti Ermete Zacconi non si risparmia, Ermete Zacconi strafà. Il povero Shakespeare aveva scritto nella prima scena il colore generale di crepuscolo del dramma per dare una situazione e un’armonia ai personaggi? Deplorevole sottigliezza. Isoliamo Amleto, facciamone un caso patologico, una romantica Cenerentola: così suggerisce la più elementare sapienza degli effetti. Dunque aboliamo la prima scena. L’incontro con lo spettro è un momento d’interruzione nel processo dell’au-