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tempo e rivelarci con sobrietà nelle opere di D. Tumiati, di L. Ruggi e di A. Testoni i simboli della sua Italia. Ognora sia lodato il penetrante riconoscimento delle proprie affinità elettive, poiché anche pensando che Mezzalana sia la misura della moderna tragicità si può operare beati, quietamente, se è così innato l’istinto del sobrio. E gioverà render giustizia al gusto connaturato, infallibile di Ermete Zacconi per gli orizzonti ben delimitati, senza ineguaglianze, placidamente esenti da pericoli e da oscuri propositi. Lealmente pago di monotone dizioni egli ci dirà i suoi lirici sfoghi come si compie un dovere quotidiano; alieno dalle avventure troppo preziose e rare ci verrà abituando ad agevoli confidenze con gli esotici Otelli, Amleti, Macbetti non troppo distanti, per il suo buon senso semplificatore, dai Kean e dai Corradi. Appena converrà per i primi crescere il tono del canto e il fervore delle effusioni, come si richiede nell’onesta tradizione dello spettacolo domenicale. Non si saprebbero trovare differenze dal mediocre caso di A. Sainati. Buon per noi se, scaltriti al gioco, cercammo di fronte a queste semplificazioni shakespeariane le dovute cautele, e l’ascoltare il facile attore non fu senza più profonde consolazioni di ironia e di contrapposti estetici.

Naturalmente parchi e non troppo esigenti per necessità fatali di conciliazione non volemmo illuderci sulle doti di comprensione che sapesse rivelare il secondo Ermete di fronte al caro mistero dell’Amleto. Che se l’opera è stata fraintesa dai critici, condotti sulle orme regali di Goethe a cercare la tragedia del dubbio e della volontà e il problema del protagonista o della sciagura irreparabile, meglio prepararci a indulgenza per l’attore e tentare frattanto