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30 | p. gobetti |
Il fatto è che riparlare oggi di Zacconi non sembra più un avviarsi verso l’ignoto: e bisogna ormai attenuare con misura l’esposizione di risultati che Don Chisciotte ha reso pacifici e comuni.
Invero gli ammiratori di Ermete Zacconi «il più grande attore italiano» non si provarono a confutare o ad attenuare le conclusioni dello studio che gli dedicò con esuberante imprudenza il «baronetto di Munchausen della filosofia». Per trovare apologisti bisogna ancora risalire al Bracco1 (1896) e al Rasi 2 (1905). Ma sono apologie che, per le limitazioni che pongono, per la preparazione culturale da cui derivano, per la fredda solennità (o sicumera d’abitudine?), arida di buon gusto, hanno la loro svalutazione in se stesse.
«L’odio profondo, giurato all’esuberanza, all’iperbole», lo studio del vero e del semplice sono elementi che non decidono del giudizio estetico e impressionano solo chi ascolti pratici suggerimenti. Bracco e Rasi esaltano in Zacconi le loro debolezze di veristi: la misura della loro critica sarebbe per avventura nei loro fallimenti artistici e nella mediocrità di gusto delle loro estetiche.
In verità il «sobrio e semplice» Zacconi dopo pochi esordi di giovanile freschezza (Tristi amori, Resa a discrezione, Demi-monde, L’amico delle donne) non ha saputo organizzare le sue mediocri doti di virtuoso, ma ha voluto diventare l’avanguardista di tutte le maniere. Come a ciò lo confortassero le letture di Descuret, Charcot, Lombroso, Ferri, di cui altri gli diè lode, è spiegato dal suo istinto e