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La poesia non è un assoluto misticamente creato ai disopra di tutti i relativi e di qualsiasi pensabile rapporto, è opera di coscienza critica su cui si esercita e si rinnova la coscienza del critico.

Tra poeta, lettore, critico e attore la differenza non è che di gradi: tutti pensano presupponendo (storicamente) la propria personalità. Il poeta crea presupponendo il suo mondo ed è critico in quanto commisura ogni elemento al proprio organismo estetico respingendo quello che non è coerente con la sua armonia; il lettore, il critico, l’attore creano commozioni e interpretazioni presupponendo ancora se stessi, ma un se stesso alla formazione del quale concorre l’ideale dell’opera d’arte che leggono, giudicano, rappresentano. Prescindendo dal momento teoretico nel quale dei quattro gradi si deve descrivere il valore e fissare il criterio di distinzione, chi voglia giudicare della validità dell’opera del poeta, del lettore, del critico, dell’attore, ha il semplice compito sottile e preciso di constatare o negare la coerenza espressiva (in senso ampio) del risultato e dei presupposti storici che vi dovevano concorrere.

L’opera del poeta si studia come opera del poeta, e l’opera dell’attore come opera dell’attore. In altri termini ci si chiede a teatro quale fosse la validità del mondo che l’attore aveva dinanzi, come egli lo abbia capito e integrato: critica di interpretazione scenica e critica della critica: anche chi non accetti il teatro come forma spirituale autonoma distinta dall’arte può con perfetta coerenza studiare l’opera dell’attore. Ma la critica dell’attore non può in alcun modo introdursi nel primo momento: l’errore del poeta non può essere giustificato da nessuna considerazione retrospettiva di opportunità scenica. Altrimenti non