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un’estetica capace di dar meglio ragione del processo creativo come processo di critica ossia dello spirito che si realizza come individualità; un’estetica che intenda i valori di tradizione e, per dirla con una frase che avrebbe bisogno di non pochi chiarimenti, la storicità della fantasia. Ma non si può andare oltre Croce se non si parte appunto da lui. Per non avere meditato abbastanza su questi problemi, l’estetica del D’Amico è inconcludente e contradditoria. Benché egli abbia superato il pregiudizio dell’arte moralistica, non si sa affatto liberare dalla concezione cattolica e perciò la sua visione dell’arte non coglie il momento creativo, ma si ferma ad una astratta considerazione contenutistica e statica. L’idea che l’arte drammatica debba avere la sua misura e il suo equilibrio nel momento della divulgazione, della comunicazione è, nel D’Amico, un residuo di quella concezione manzoniana dell’arte che nell’espressione vede essenzialmente un fatto sociale; qualcosa come una propaganda democratica. Non è qui il luogo di mostrare il legame di tale concezione con le estetiche romantiche e veristiche. E, poiché d’altra parte il D’Amico ha troppo ingegno per starsi senza preoccupazioni al secolo scorso, ne scaturisce una contaminazione senza verità di due teorie intimamente contradditorie. In questo libro accade così di leggere accanto a digressioni inaccettabili e più che invecchiate di teoria, pagine misurate e sottili di analisi estetica condotta con gusto, movente da presupposti estetici impliciti che sono naturalmente repugnanti con quelli espressi.

Ora è logico che per un tale contrasto le pagine più suggestive, mancando di continuità e di coerenza, si trovino diminuite e la ragione ne va ricercata nella psicologia