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86 | vittorio alfieri |
Ma poco io stovvi, perchè nacqui in fretta.
Già mezzo è il Maggio; e sì del Bòtnio golfo
Il ghiaccio ancor dà inciampo a mia barchetta.
Pur fa arrischiarmi il giovanil mio zolfo:
Salpo: e spesso è mestier far via coll’ascia,
Quanto in Finlandia più la prora ingolfo.
Se un tavolon di ghiacci il legno fascia,
Fuor del legno su i ghiacci io tosto balzo,
Nè pel mio peso l’isola si accascia.
Così, ruzzando e perigliando, incalzo
La strada e il tempo; infin ch’Abo mi accoglie,
Ma non più tempo che la palla al balzo.
Tutte son tese le mie ardenti voglie
A veder la gran gelida Metropoli,
Jer l’altro eretta in su le Sueche spoglie.
Già incomincio a trovar barbuti popoli:
Ma l’arenoso piano paludoso
Mi annunzia un borgo, e non Costantinopoli.
Giungo: e in fatti, un simmetrico nojoso
Di sperticate strade e nane case,
S’Europa od Asia sia mi fa dubbioso.
Presto mi avveggo io poi, che non men rase,
Di orgoglio no, ma di valor verace
Le piante son di quell’infetto vase.
Ogni esotico innesto a me dispiace:
Ma il Gallizzato Tartaro è un miscuglio,
Che i Galli quasi ribramar mi face.
Mi basta il saggio di un tal guazzabuglio:
Non vo’ veder più Mosca nè Astracano:
Ben si sa che v’è il Bue, dov’odi il muglio.
Nè vo’ veder Costei che il brando ha in mano,
Di sè, d’altrui, di tutto Autocratrice,
E spuria erede d’un poter insano:
Di epistole al Voltèro anch’essa autrice
E del gran Russo Codice, che scritto
Fia in sei parole: «S’ei ti giova, ei lice.»
Indiademato abbellisi il delitto,
Quant’ei più sa, dei loschi e tristi al guardo:
Ma lo abborra vieppiù chi ha il cuor più invitto.
Inorridisco, e fuggo: e cotant’ardo
Di tornare in Europa, che in tre giorni
Son fuor del Moscovita suol bugiardo.
Nè punto avvien ch’io in Dànzica soggiorni,
Perchè assaggiata è dal Prussian Tiranno
Che sPolonizza già i suoi be’ contorni.