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Dresda, bench’egra di recente piaga
Che i Borussi satelliti le han fatta,
Parmi dell’Elba a specchio seder vaga.
Un certo che di lindo ha, cui s’adatta
L’occhio mio: la favella appien rotonda,
Benchè ignota, l’orecchio mi ricatta.
Ma fatal cosa ell’è; ch’ove più abbonda
Un bel parlare, ivi la specie umana
Sia seccatrice almen quant’è faconda.
Partiamo. A Meissen per la porcellana,
Poi per la Fiera a Lipsia m’indirizzo,
Per la scïenza no, che a me fia vana.
Non mi pungea per anco il ghiribizzo
Di squadernar quei Tomi elefanteschi,
Di sotto ai quali omai più non mi rizzo.
Pria che nè l’Us nè l’Os l’alma mi adeschi,
Molti begli anni a consumar mi resta
Tra postiglion, corrieri, e barbereschi.
Troppo è mattina: a rivederci a sesta,
Lipsia mia. — Già l’orribil Brandinburgo,
Con sue arene ed Abeti m’infunesta.
Re quivi siede un Uom semi-Licurgo,
Semi-Alessandro, e in un semi-Voltéro:
Chi grecizzasse, il nomeria Panurgo.
Ei scrivucchia; ei fa leggi; ei fa il guerriero:
Ma, tal ch’egli è, sta dei Regnanti al volgo,
Come sta il Mille al solitario Zero.
Non vi par bello il paragon ch’io avvolgo
Nella moderna scorza geometrica,
Da cui sì dotta l’evidenza or colgo?
Ma già la numeral frase simmetrica
Lascio, e il suo gelo; e sfogherò il mio dire,
Sciolto dalla Ragione Inversa tetrica.
Quel Federigo, ch’or ci tocca udire
Denominar col titolo di Grande,
A me più ch’un Re picciol movea l’ire.
Che quanti guai per l’Universo spande
La Protei-forme infame Tirannia,
Tutti son fiori onde ha quel Sir ghirlande.
Balzelli, oppressïon, soldateria,
Brutalità, stupidità, Gallume,
Teutonizzata la pederastia,
E in somma il più schifoso putridume
Di quanti darian vizj Europe sei,
Quivi eran frutto di quel regio acume.