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78 | vittorio alfieri |
Visto che in Zena da imparar non v’è,
L’Appennin già rivarco e m’immilàno.
Ma quivi io tosto esclamo un altro Oimè.
Le cene, e i pranzi, e il volto ospite umano,
E i crassi corpi e i vie più crassi ingegni
Che il Beozio t’impastan col Germano,
Fan sì ch’io esclami: «Oimè, perchè pur regni,
«Alma bontà degli uomini, sol dove
«Son di materia inaccessibil pregni!»
Dall’Insubria me quindi or già rimuove
L’agitator mio Dèmone, che pinge
Nuovi ognora i diletti in genti nuove.
Oltre Parma, oltre Modena ei mi spinge,
Oltre Bologna; senza pur vederle:
Come del barbaro Attila si finge.
Rapido sì travalico già per le
Tosche balze, che tante ali non puote
Neppur Scaricalàsin rattenerle.
Eccomi all’Arno, ove in suonanti note
La Plebe stessa atticizzando addita
Come con lingua l’aria si percuote.
Ma non mi fu, quanto il dovea, gradita
L’alma Cantata allor, perchè m’era io
Anglo-Vandalo-Gallo per la vita:
Nè mi albergava in core altro desío,
Che varcar l’Alpi, e spazïar la vista
Fra que’ popoli, grandi a petto al mio.
Quind’io Fiorenza già tenea jìer vista:
E, muto e sordo e cieco a ogni arte bella,
D’Anglo sermon quivi facea provvista;
Ignaro appien di mia futura stella,
Che ricondurmi all’Arno un dì dovea
Balbettator della natía favella.
Pur non del tutto vaneggiar mi fea
D’Oltremonti l’amor, quand’io di tanto
Minori i Toschi al lor sermon vedea.
Ma, più che i Toschi io nullo, or lascio intanto
Firenze, e Lucca già di vol trapasso,
Senza pure assaggiarvi il Volto Santo.
Pisa Livorno e Siena mi dan passo,
Perch’io sbrigarmi in fretta e in furia voglio
Di veder questa Roma e il suo Papasso.
Ecco, alle falde io sto del Campidoglio:
Ma il carneval che in Napoli mi chiama,
Fa che per or di Roma io mi disvoglio.