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satire | 59 |
SATIRA QUARTA.
LA SESQUI-PLEBE.
Pecuniæ accipiter, avide atque invide, Procax, rapax, trahax: tercentis versibus Tuas impuritias traloqui nemo potest. |
Plaut., Persa, III, 3. |
Aurívoro avoltojo, invido ed avido, Di te audace furace rapace Annoverar le porcherie, nè il ponno Carmi trecento. |
Avvocati, e Mercanti, e Scribi, e tutti
Voi, che appellarvi osate il Ceto-medio,
Proverò siete il Ceto de’ più Brutti.
Nè con lunghe parole accrescer tedio
Al buon Lettor per dimostrarlo è d’uopo;
Che in sì schifoso tema anch’io mi tedio. —
È ver, che molti prima e alquanti dopo
Di voi nel gregge socïal si stanno:
Ma definisco io l’uom dal di lui scopo.
Certo è, che il vostro è di camparvi l’anno,
E d’impinguarvi inoltre a più non posso,
Di chi v’è innanzi e di chi dietro a danno.
Il Contadin, che d’ogni Stato è l’osso,
Con la innocente industre man si adopra
In lavori che il volto non fan rosso.
Il Grande e il Ricco, la cui man null’opra,
Spende il suo; quindi agli altri egli non nuoce,
Ed è men sozzo perch’ei già sta sopra.
Ma voi, cui l’esser poveri pur cuoce,
E l’aratro sdegnate, o ch’ei vi sdegna,
Bandita avete in su l’altrui la croce.
Onde voi primi alta ragion m’insegna
Ch’esser dobbiate infra le classi umane,
Qualor sen fa patibolar rassegna.