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satire 57


Più non è vero, che a Mammata in cesso
Nutrimento porgesser di lor carne
Le De-Giovanni del men forte sesso:
Tai fasti in oro abbiam sepolti; e trarne,
Anzi che danno, util potrai tu in breve,
Purchè ben sappi a tempo e luogo usarne.
Te frattanto e considera e riceve
Anco il Magnate il più orgoglioso; e datti
Sua figlia in moglie, perchè darti ei deve.
Questa di nobil prole babbo fatti:
Già tre maschi e una femmina ti han pago;
Sì bene ai signorili usi ti adatti.
La ragazza è sputata la tua immago;
Sarà da immensa dote induchessata:
Ciò disse il Vate al suo natal presago.
La Giovannesca maschia nidïata,
«L’un sarà Conte, l’altro Cavaliere,»
Cui Malta avrà sua Croce appiccicata.
Eletto il terzo al Vescovil mestiere,
Sta imparando il latino e l’impostura,
Che Cristo non è merce da Banchiere.
Cresce così la prosapietta oscura
Predestinata a splendidi maneggi,
Se la intarlata Monarchia pur dura:
Ma, se avvien mai che il Principato ondeggi
Sotto a Re cui sia trono la predella,
E che impunito ogni vil uom parteggi;
Il mio Giovanni allor si rïabbella
Di sua schifosa ignobiltà natìa,
Sfacciatamente avviluppato in ella.
Primo ei grida: Il Re muoja, e con lui sia
Spenta de’ Grandi la servile schiatta,
Che noi si ardiva di appellar genìa.
Meglio il sovran potere assai si adatta
Al non corrotto Popolo operante,
Che a lor cui l’ozio e la mollezza imbratta.
E d’una Moltitudine imperante
Gli alti pensieri chi eseguir può meglio,
Di un ben eletto suo Rappresentante?
Ciò detto, ei l’auree sacca, a lui già speglio,
Ratto scioglie, e tra feccia e feccia spande,
Per farsi un po’ di trono anch’ei da veglio.
Cambiò già in oro le paterne ghiande:
Or l’oro ei cambia in popolar corona,
Che il farà per qualch’ora apparir Grande.