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PROSA PRIMA.


Alla passata, presente e futura Italia.

IV.   ἀλλ’ ἐμέθεν ξύνες ὦκα · Διὸς δέ τοι ἄγγελός εὶμι.


Omero, Iliade, XXIV, 133.


Pon mente a me: nunzio di Giove io vengo.



Ancorchè quest’Operuccia, nata a pezzi, ed a caso, altro non venga ad essere che un mostruoso aggregato d’intarsiature diverse, ella tuttavia non mi pare indegna del tutto di esserti dedicata, o Venerabile Italia. Onde, ed a quella augusta Matrona, che ti sei stata sì a lungo, d’ogni umano senno, e valore principalissima sede, ed a quella che ti sei ora (pur troppo!) inerme, divisa, avvilita, non libera ed impotente; ed a quella che un giorno (quando ch’ei sia) indubitabilmente sei per risorgere, virtuosa, magnanima, libera, ed una; a tutte tre queste Italie in questa breve mia Dedica intendo ora di favellare.

Gli odî di una nazione1 contro l’altra, essendo stati pur sempre, nè altro potendo essere, che il necessario frutto dei danni vicendevolmente ricevuti, o temuti, non possono perciò esser mai, nè ingiusti, nè vili. Parte anzi preziosissima del paterno retaggio, questi odî soltanto hanno operato quei veri prodigî politici, che nelle Istorie poi tanto si ammirano.



  1. Nel dir Nazione intendo una moltitudine di uomini per ragione di clima, di luogo, di costumi, e di lingua fra loro non diversi; ma non mai due Borghetti o Cittaduzze di una stessa provincia, che per essere gli uni pertinenza ex. gr. di Genova, gli altri di Piemonte, stoltamente adastiandosi, fanno coi loro piccioli, inutili, ed impolitici sforzi ridere, e trionfare gli elefanteschi lor comuni oppressori.