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satire | 109 |
In ogni dove in somma, pur che doma
La Moltitudin sia dalle lor arti,
Cangian maschera ed inni ed armi e soma.
Se in dominio assoluto e senza parti
Solo un tiranno inespugnabil siede,
Coro a lui fan costor per più picchiarti;
E il confessano e l’ungon, s’ei ci crede;
O, s’ei Galleggia, gli sorridon blandi,
Maravigliando che più ch’Argo ei vede.
Ottimi, al buono; al rio Signor, nefandi
Mostransi: e quindi avvien che cotal Setta
A chi regnar si crede ognor comandi.
Ma, se mai la Tirannide, già inetta
Per impotenza o vetustà, dà loco
Al macchinar della Viltà negletta;
Gli Illuminati allor, scambiando il giuoco,
Osan, profani e fetidi servacci,
Di Libertà mentire il nobil fuoco:
E metton su in tal massa i compri stracci,
Che, i Grandi e i Ricchi affondandovi sotto,
A tutti hann’essi triplicato i lacci.
Ma sempre abbajan poi col volgo indòtto
Contro ai Tiranni, ch’ei leccavan pria;
Bastonando essi meglio, a scettro rotto. —
E così avvien che una servii Genía
Coi propri vizj e con l’altrui sciocchezza
Si sgombri ognor del dominar la via.
Ma troppo è antiqua la funesta ebbrezza,
Che i molti fa dei Pochi e Iniqui preda;
Onde il più dirne qui, saría mattezza.
Bastami sol, che chi ha i du’ occhi il veda;
E che, sdegnando i rei maneggi bui,
Ai vili e rei (che a ciò son nati) ei ceda
Il vil mestier dell’Aggavigna-altrui.