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satire | 105 |
Conquistator del Mondo intero fansi
I liberi Romani, in numer pochi,
Ma in valor rari sì, ch’eterni avransi:
Sempre addestrate in militari giuochi
Le centinaja di migliaja nostre
Fan che in suonar ritratte il Tromba affiochi;
Che riconquista con eroiche mostre
All’indietro ciascuno il proprio nido,
Qual usa appunto in teatrali giostre.
Tutto è bocche da fuoco: eppur niun grido
Di romor tanto resta, mercè il motto
D’ogni spedal di guerra: «Io son che uccido».
Così da sè ogni esercito vien rotto,
Abbia ei di vinto o vincitor la taccia;
E chi lo assolda, ha da morir decotto. —
B. Ben tu chiacchieri in ver; ma che si faccia
Lo Stato Ci, quando lo Stato Bi
Tutti i suoi maschi a forza all’armi caccia,
Vorrei che tu pur m’insegnassi qui.
Spesso tal v’ha di luoghi e tempi stretta,
Che, o vogli o no, tu dèi pur dir di sì.
Mira: l’Italia inerme al par che inetta,
Che in Tomi dieci pur non fa un Volume,
I calci in cul ringrazïando accetta.
Or le tocca sfamare il rio Gallume;
Or godersi il Tedesco per men male;
Fetida ognor d’Oltramontan marciume.
Dunque, poichè lo schioppo sol prevale,
Chi più n’ha, tutto avrassi: e chi non paga
I proprj suoi, ben zucca è senza sale;
Che, con più dura e vergognosa piaga,
Dovrà soldar gli altrui contro se stesso:
Che sol nell’oro il ferro altrui si appaga. —
A. Dunque a noi, schiavi tutti, omai concesso
Il tremendo alternar solo rimane,
Che i tuoi detti or mi fan pur troppo espresso:
O per gli altrui Sicarj ad inumane
Conquistatrici leggi irne soggetti,
Che ci lascin più lagrime che pane:
O in copia immensa a sdigiunar costretti
Con pari danno e servitù più infame
I proprj militari Tirannetti.
Tutto irto d’armi or l’Europeo Carcame
Sforza i suoi vili abitatori a scelta:
Perir di ferro, od arrabbiar di fame. —