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alle esigenze della vita nella residenza assegnatali pensò di prendere a pigione una casa di più stanze e di far vita comune con cinque o sei alunne della scuola in cui insegnava. Fissò per ciascuna una retta mensile provvisoria anticipata, da tenersi in conto alla fine del mese, giacchè essa faceva segnare alle alunne stesse la spesa giornaliera pel vitto, la spesa mensile per le provviste, quella occorrente perla domestica, pel padron di casa, ecc., e divideva tutto in parti uguali, comprendendo anche sè stessa fra le paganti.

Le alunne ne erano molto contente, perchè la spesa mensile era mitissima e avevano il benefizio di impratichirsi dell’amministrazione domestica e di convivere con un’insegnante, la quale faceva loro le veci di madre, usciva con loro a passeggio, studiava con loro e le aiutava, quando era necessario, a far bene i compiti scolastici.

Ma un bel giorno la casa ospitale fu chiusa. Il direttore della scuola ebbe non so quale invidia o sospetto sull’opera d’abnegazione di quella professoressa e ne scrisse o fece scrivere al Ministero, il quale ordinò che essa non avesse più tenuto alunne in casa. Chiamata dal R. Provveditore agli Studî per la comunicazione dell’ordine ministeriale, la distinta signorina giustificò talmente l’opera sua, che l’egregio uomo le promise di difenderla presso il Ministero; ma ella insistè nel chiudere la sua casa alle alunne per non mettersi in urto col suo superiore immediato.

Questo fatto sembrerebbe strano, se non fosse vero; ma e giustificato dal modo di pensare comune fra noi che, quando vediamo professori che tengono in casa propria a pensione alunni appartenenti all’istituto in