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Ho conosciuto dei giovanetti che, tornati a casa dal collegio, nelle vacanze, serbavano un contegno altero con tutte le persone di famiglia, s’imponevano ai fratelli e alle sorelle, pretendendo dei riguardi e delle attenzioni, come se fossero i personaggi più importanti della casa, ed evitavano anche di unirsi per istrada ai vecchi compagni di scuola, che non avevano potuto, come loro, recarsi a continuare gli studî in un collegio, e indossare, come loro, la divisa che li rendeva tronfi e pettoruti.
Insomma la vita del convitto, fatta di artifizio, di convenzioni, di necessità e di espedienti per accomunare attitudini, energie e volontà differenti, non prepara nè alla vita della famiglia nè a quella sociale; ed è facile vedere quanto i gravi difetti cui dà origine la vita collegiale nocciano specialmente all’educazione della donna, che è chiamata dalla natura ad essere l’educatrice della prole.
A questo dovrebbero badare i genitori che, senza necessità alcuna, mettono le proprie figlie in collegio a scopo di educazione. «La donna — dice il Tommaseo — non sia rinchiusa nei collegi, se non quando le cure materne le manchino, nè possono tenerne le veci altre cure». Ma, generalmente parlando, le famiglie civili credono che l’educazione d’una giovanetta non possa essere completa, se non vive per alcuni anni in un buon collegio.
Veramente questa credenza ha un fondamento di ragione: si pensa che la vita sistematica del convitto sia adatta a far contrarre delle abitudini durevoli, e, certamente, quando le abitudini buone si sono formate, anche l’educazione è compiuta. Ma il guaio è che spesso