ne buona grossezza. Tutta quanta si è, dall’alto sino al basso, è di una sostanza molle, come un ravanello; coperta da un solo dito di corteccia, non molto dura, nè liscia. Se ne servono in questo modo: la tagliano in pezzi, e la pongono a macerare un poco nell’acqua; poi ne tolgono solamente una lista della corteccia (acciò il rimanente serva, per contenere la sostanza interiore) e tagliano quel bianco, che sta dentro in minutissimi pezzetti: tagliato, lo pestano co’ piedi, dentro ceste fatte di canne, presso al fiume; in modo tale, che la sostanza migliore, se ne scorra (coll’ajuto continuo dell’acqua) nella sottoposta barchetta, piena d’acqua. Indi poi si toglie, e si pone entro forme, fatte di foglie di palme (simili a quelle, in cui si fa il cacio, fra di noi) dove s’indurisce alquanto, come un’amido molle; che poi asciutto al Sole, senz’ajuto di forno, serve di pane, molto nutritivo, e durevole.
Il secondo genere di palme si è quello, che dà il vino, e l’aceto. I Tagali le chiamano Sasà, i Bisay Nipa. Elleno non giungono a tal grandezza, che meritino il nome d’albero; perocchè nascono in luoghi abbondanti d’acqua salmastra,