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libro secondo - capitolo ottavo 111


della scienza e della letteratura, e abbisognando l’una dell’altra, non fanno effetti notabili se vengono scompagnate. La dottrina vestita di cenci smette due terzi del suo valore. Senza di essa si dá facondia, non eloquenza; si hanno puri, eleganti, copiosi dettatori, non grandi e potenti scrittori. A parlare propriamente, non è scrittore chi non ha stile, né può dirsi che abbia stile chi è disadorno e irsuto di eloquio o di concetto volgare, istrice o pappagallo. Lo stile è l’unione delle due cose, cioè idea e parola insieme; la quale unione non è semplice aggregato, ma legatura, compenetrazione intima, e come dire ipostasi indivisa del concetto e del suo idolo o segno; e però è capace di bellezza, atteso che il bello è l’accoppiamento del sensibile coll’intelligibile1. Lo stile è il corpo delle idee e quasi il rilievo per cui spiccano e risaltano dal fondo del pensiero e del sentimento; onde Gasparo Gozzi dice che gli antichi «proferirono i loro pensieri con un certo garbo, che non solamente si leggono, ma si può dire che si veggano con gli occhi del capo; tanto corpo hanno dato a quelli con le parole»2. Perciò, laddove nei buoni scrittori moderni prevale il genio della pittura, negli ottimi antichi si ravvisa il fare scullorio, non vedendosi soltanto le idee loro, ma quasi toccandosi con mano. Ché se al giudizio di Antonio Cesari «le parole sono cose»3, non è men vero che le cose sono parole; quanto l’idea male espressa sussiste solo virtualmente e non è, per cosi dire, che la metá di se stessa. Lo stile insomma è l’atto e il compimento del concetto, perché gli dá tutto il suo essere e lo incarna perfettamente colla parola, trasferendolo dalla potenza iniziale dell’intuito e del senso confuso nel giro attuale e maturo della riflessione.

Il divorzio del pensiero e della loquela era quasi ignoto agli antichi, che da Omero4 a Cicerone mostrarono coi precetti e coll’esempio di credere che il senno e l’elocuzione importino



  1. Del bello, cap. i e 6.
  2. Opere, t. xiii, pp. i27, i28.
  3. Antidoto, Parma, i839, p. i42.
  4. Nell’Odissea i collocutori del protagonista lodano spesso l’aggiustatezza e la leggiadria del suo parlare.