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CAPITOLO DECIMOQUARTO 13 1

cavalleresca, come quando, disfatto e in fuga il suo esercito, egli corse a Milano in vece di riparare a Piacenza.

Nella vita politica i suoi principi furono lieti e tristi, degni di lode e di biasimo egualmente. Mosso dagli altrui conforti e da giovenil vaghezza piú che da seria considerazione, abbracciò la causa patria e aspirò per un momento alla gloria di liberatore. Ma l’ingegno e l’animo gli mancarono nelle prime difficoltá, e il terrore gli chiuse gli occhi al vituperio in cui incorreva abbandonando alle regali vendette i generosi che in lui si affidavano. Volle tenere una via di mezzo (che in tali frangenti suol essere la peggiore) e incorse nel biasimo di tutte le parti. Volle accordare insieme atti e propositi ripugnanti: promuovere ad un tempo l’ indipendenza e ubbidir puntualmente a un principe che l’odiava. Laddove avrebbe dovuto eleggere tra il re e la nazione: se aderiva a quello, rifiutar lo statuto; se a questa, mantenerlo e assumerne la difesa. Né giova il dire che per difetto di forze non potea difenderlo o che l’impeto del’ popolo gli tolse di ricusarlo, e che la fuga era necessaria per salvare il Piemonte da invasione e il trono da successione tedesca. Imperocché niun pericolo scusa la violazion dell’onore; e se per evitare mali certi o probabili fosse lecito il prevaricarlo, i nomi piú puri della storia si sarebbero macchiati con infinite viltá. La prudenza prescriveva al Carignano di ributtare la costituzione spagnuola a ogni costo, se prevedeva di non poter mantenerla; gli prescriveva di non cedere a una furia di popolo, assai minore di quella a cui seppero resistere il Boissy d’Anglas e Alfonso di Lamartine in tempi e congiunture di gran lunga piú formidabili. Ma dopo che l’avea giurata, non dovea dividere la sua sorte da quella de’ suoi compagni, checché potesse avvenire. Meglio era un momentaneo insulto dell’Austria (ché al dominio ovviavano le condizioni europee) che tradir gl’infelici e macchiare il nome di Carignano; meglio era perdere il regno che disonorarlo. Ma non l ’avrebbe perduto, poiché nel peggior presupposto il Piemonte non sarebbe mai stato docile alle trame dei diplomatici, e la rivoluzion francese del trenta (che precedette la morte di Carlo P’elice) le rendeva d’impossibile