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capitolo decimoterzo 99


Anzi egli dee rallegrarsi di non aver sortito un grado onde fu decorato Giacomo Antonelli, degno omonimo di quel Leonardo che vituperava nel secolo scorso gli oracoli di Clemente1 Egli è fatale che da Fabrizio Ruffo in poi (per non parlar dei tempi piú antichi), il quale empieva di sangue e di cadaveri il Regno, le miserie d’Italia abbiano quasi sempre sortito per complice e ministro un cardinale, e che Roma sia profanata con indegne opere da chi dovrebbe averne piú a cuore la riputazione. L’Antonelli non ha lealtá né fermezza di professione politica: colá si getta dove scorge il suo utile; onde s’infinse liberale nel quarantotto, come oggi supera di veemenza le furie dei sanfedisti. Nelle quali fa miglior prova, perché seconda la sua natura, scolpita nel volto sparso di fiele, negli occhi torvi, nel cipiglio falso e feroce. Scarso di vero ingegno, privo di dottrina, destituito di ogni pratica e cognizione politica, ma ricco di quei raggiri e scaltrimenti in cui spesso valgono gli spiriti mediocri, egli seppe nella ritirata di Gaeta insignorirsi con arti ipocrite dell’animo di Pio, chiuderne gli orecchi al vero e il cuore alle buone inspirazioni, rendersi arbitro de’ suoi sensi e de’ suoi voleri. Se i diplomatici, come si disse, obbligassero il povero pontefice a deporre con formale promessa ogni potere politico nelle mani del porporato che piú di tutti andava loro ai versi, non posso affermarlo di certo. A ogni modo l’Antonelli fu d’allora in poi solo principe e, se non primo autore, esecutore onnipotente di quella politica per cui Roma oggidí gareggia con Napoli nel primato della sventura.

Riconciliarsi col popolo romano, rientrare pacificamente in Roma, mantener lo statuto, rifiutare i soccorsi stranieri, non accettare altro aiuto e altra guardia che quella di armi libere e nazionali, parvero al buon prelato cose indegne di un principe



    smini non corrispondano da ogni lato al bisogno dei tempi. Ma ancorché questo sia vero, non sarebbe un gran bene per la nostra Italia se tutti i preti l’amassero e filosofassero come il Rosmini? e non è forse indiscrezione il chiedere ai chierici tutti quei civili incrementi che altri può promettersi ed esigere dai secolari?

  1. Il gesuita moderno, cap. xi.