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della Camera e la persona dei deputati. Nel giorno che dovea scoppiare uno di questi tumulti, Camillo di Cavour e il Pinelli vennero a trovarmi, sollecitandomi ad accettar l’ufficio poco prima disdetto. La sicurezza e la dignitá parlamentare correr grave pericolo, essere il mio nome in favore e credito dell’universale, potere col mio ingresso nel Consiglio sedar le ire e ovviare agli eccessi che si temevano. Consentii a malincuore, perché i miei sospetti non erano spenti, e per chiarirmi mi valsi del partito che troppa allora importava di effettuare. Proposi a’ miei colleghi di offrir subito al pontefice la lega desiderata, dandone il carico ad Antonio Rosmini, che per la fama, il grado, la specchiata religione e le idee liberali moderatissime, mi pareva che dovesse meglio di ogni altro esser caro ed accetto a Roma. La proposta piacque a tutto il Consiglio e fu incontanente mandata ad esecuzione. Tanta prontezza e la nobile lealtá di Gabrio Casati e de’ suoi amici dissiparono a poco a poco tutti i miei dubbi: conobbi che le sinistre intenzioni loro apposte movevano da errore o da malevolenza degli avversari; che erano bramosi dell’unione, devoti al principato civile, e che non aveano altro torto che quello di amare il Piemonte italianamente senza studio di parte e spirito di municipio.

Io non intendo di scrivere la storia di questa breve e penosa amministrazione1, che fu in Piemonte il primo saggio di governo nazionale e che spettatrice di atroci disastri poté piú deplorarli che impedirli o porvi rimedio. Mi ristringo a quel poco che si richiede a chiarire il processo dei municipali e a districare il viluppo dei casi che seguirono. Il capo piú rilevante a cui dovea provvedersi era la guerra, la quale, dopo i sinistri (che appunto allora cominciarono) e l’indegno armistizio soscritto fuori di ogni partecipazione del governo, avea mestieri dell’aiuto di un popolo amico. I nostri pensieri si rivolsero alla Francia che ce lo aveva offerto. Finché le armi

  1. Chi voglia vedere in poche linee quello che fece può leggere la breve dichiarazione che pubblicò nel congedarsi (Il Risorgimento, 19 agosto 1848).