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libro primo - capitolo settimo 153


vogliono subordinarsi alla nazionalitá e non viceversa: e quando un popolo manca di essa, egli dee rivolgere tutte le sue cure a procacciarsela, postergandole i beni di minor momento. La dimenticanza di quest’ordine precipitò il Risorgimento italiano e nacque dal falso aforismo preallegato. Imperocché la volontá generale essendo la somma delle individuali, chi colloca in essa la fonte primaria del diritto è inclinato logicamente a privare la libertá de’ suoi confini ed esagerarne il valore, quando arbitrio e volere sono tutt’uno. Quindi proviene un altro adagio sofistico, che «la libertá non dee aver limiti, ed è l’essenza e il fine del civile consorzio». Non vorrei, ripudiandolo, venire in voce di poco amatore degli ordini liberi, che io reputo per uno dei maggiori acquisti e per condizione essenziale di ogni civiltá adulta. Ma quanto piú la libertá importa, tanto piú dobbiamo guardarci di offenderla trasnaturandola. Coloro che professano il principio sovrascritto scambiano l’idea di libertá con quelle di bene propriamente detto, il quale solo ha ragion di fine e non è capace di eccesso; laddove la libertá in se medesima è mezzo e strumento, e versando in una potenza voltabile al male come al bene, e il cui valore dipende sia dal modo come si attua sia dall’oggetto a cui si appiglia, ha d’uopo di regole che la circoscrivano. Vero è che il male essendo difetto e negazione, l’arbitrio, come potenza positiva, è ordinato e tende per natura al bene, e solo se ne disvia per ragione di morbo o di consuetudine. La libertá assoluta non può il male, e anco la limitata vi s’induce difficilmente quando non è guasta dalla cattiva disciplina. Perciò nelle lingue che traggono dal latino, «libertá» non suona solo una facoltá mera ma un abito, cioè «il complesso delle morali e civili virtú», come il Giordani la definisce1. E nel modo che la libertá è la potenza di fare il bene, similmente la liberalitá è l’inclinazione a comunicarlo; onde viene il nome di «liberale», comune a quelli che amano il vivere libero e a quelli che largheggiando ne appianano agli

  1. Opere, Firenze, 1846, t. ii, p. 134.