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dell'impero romano cap. lxx. 285

tempo dovè aspettarla. In mezzo ai giuochi della piazza Navona, alcuni fanciulli e artigiani avendo attaccato briga, egli si sforzò per tramutarla in una sollevazione generale di popolo. Sempre umano Papa Nicolò, non volle nè manco punirlo, contentandosi, per allontanarlo dalla tentazione, di confinarlo a Bologna, ove gli assegnò un onesto viatico, non imponendogli altra obbligazione, fuor quella di presentarsi ogni giorno al Governatore della città. Ma il Porcaro, imbevuto della massima dell’ultimo dei Bruti, non doversi serbare nè gratitudine, nè fede ai tiranni1, non pensò ad altro nel suo esilio che a declamare contro la sentenza, ei diceva, arbitraria del Pontefice, e a poco a poco riuscì a formarsi partigiani e ad intavolare una congiura. Il nipote di lui, giovane intraprendente, adunò in Roma una truppa di congiurati, e quando fu il giorno prefisso, diede in propria casa una festa agli amici della Repubblica. Il Porcaro, fuggito celatamente da Bologna, comparve in mezzo ai convitati con una veste di porpora e d’oro; la voce, il contegno, i gesti annunziavano in esso un uomo consagratosi, in vita e in morte, alla causa ch’ei reputava tanto gloriosa; si diffuse, mediante acconcio discorso, su i motivi e i modi dell’impresa; fece sonare i nomi di Roma e della libertà romana; parlò della mollezza e dell’orgogliosa tirannide de’ preti, del consenso formale o tacito che al nuovo tentativo tutti i cittadini prestavano; promise il soccorso di trecento soldati, e di quattrocento esuli,

  1. Nicolò V ben lungi dall’essere un tiranno avea trattato Stefano Porcaro con molta clemenza, e questi avendo giurato fedeltà doveva osservarla. (Nota di N. N.)