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dell'impero romano cap. lxx. | 261 |
figlio di un cittadino di Firenze, preferì in ogni istante il paese che gli avea data la vita a quello cui la propria educazione dovea; l’Italia agli occhi del Petrarca fu mai sempre la regina delle nazioni e il giardino del Mondo. Certamente, ad onta delle sue fazioni domestiche, essa avea progredito nell’arti e nelle scienze, nella ricchezza e nella civiltà più della Francia; ma non fu poi tale fra lo stato delle due nazioni la differenza, che ne venisse un diritto al Petrarca di qualificare, siccome barbare, tutte le genti poste di là dall’Alpi. Intanto che facea segno all’odio suo ed ai disprezzi Avignone, la mistica Babilonia, ricettacolo secondo lui di tutti i vizj e d’ogni genere di corruttela, dimenticava, che questi scandalosi vizj non erano produzione indigena del suolo di Francia, ma venuti in compagnia del potere e del lusso della Corte dei Papi. Egli confessa per vero che il successore di S. Pietro è il Vescovo della Chiesa universale; ma soggiunge che l’Appostolo, non sulle rive del Rodano, ma su quelle del Tevere avea posta la sua residenza, nè può comportare, che mentre tutte le città del Mondo cristiano s’allegravano della presenza del loro Vescovo, la sola Metropoli rimanesse solitaria e deserta. Dopo la traslocazione della Santa Sede, i sacri edifizj di Laterano, del
le lettere scritte dal Petrarca, nel 1334, a Benedetto XII (t. I, p. 261-265), nel 1342, a Clemente VI (t. II, p. 45-47) e nel 1336, ad Urbano V (t. III, p. 677-691); l’elogio dell’ultimo di questi Pontefici (p. 711-715), l’apologia del medesimo (p. 771); e si consulti (Opp. p. 1068-1085) ove si rinverrà il parallelo pieno di fiele che il Petrarca instituisce fra il merito della Francia e quel dell’Italia.