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dell'impero romano cap. lxii. 223

a giusto sdegno dal rifiuto con cui la popolazione si sottraeva dal concederle il prezzo pattuito agli ottenuti servigi. Le minacce e le querele di Andronico non giovavano che a far vie più palese la debolezza e lo stato deplorabile dell’Impero. Comunque la Bolla d’Oro imperiale non chiedesse a Ruggero di Flor che cinquecento uomini a cavallo e mille fanti, nonostante il Monarca avea presa al servigio e nodrita tutta la ciurma de’ volontarj accorsa ne’ suoi Stati sotto le bandiere del condottier catalano. Mentre le più prodi milizie collegatesi coll’Impero si contentavano di uno stipendio di tre bisantini d’oro al mese, ognuno di tai fuorusciti riceveva una, o due once d’oro, il che formava un soldo annuale di cento lire sterline. Uno de’ costoro Capi avea modestamente attribuito un valore di trecentomila scudi ai suoi servigi avvenire. Laonde pel mantenimento di questi dispendiosi mercenarj, era già uscito più di un milione fuor dell’erario imperiale. Percossi con disastrosissime tasse i ricolti degli agricoltori, tolto un terzo de’ loro salarj agli uffiziali pubblici, il titolo della moneta avea sofferta una sì obbrobriosa alterazione che in ventiquattro parti di essa più di cinque d’oro non se ne trovavano1. Avendo l’Imperatore intimato a

  1. Ho raccolte queste particolarità da Pachimero (l. XI, c. 21, l. XII, c. 4, 5-8-14-19), il quale ne dà a conoscere le alterazioni che a mano a mano la moneta d’oro sofferse. Anche nei dì più felici del regno di Giovanni Duca Vatace, i bisantini conteneano una meta d’oro, e l’altra metà di lega. Michele Paleologo, costretto dalla povertà, fabbricò nuove monete, nelle quali entravano nove parti o caratti d’oro e quindici di rame. Dopo la morte di questo, il titolo si alzò a dieci caratti, fintantochè, cresciute oltre modo le pubbliche