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dell'impero romano cap. lxii. 199

preci. I prelati d’Oriente non avevano ancora abbracciate le pericolose massime dell’antica Roma, nè si credeano quindi in diritto di far forti le loro censure spirituali col gridare rimossi dal trono i monarchi, e sciogliere i sudditi dal giuramento di fedeltà; però il colpevole, separato in tal guisa da Dio e dalla Chiesa, diveniva scopo al pubblico orrore, orrore che, in una Capitale abitata da turbolenti fanatici, era valevole ad armare il braccio di un assassino, o ad eccitare una sedizione. Paleologo che comprendeva il pericolo, confessò il proprio delitto, implorando la clemenza del giudice: la colpa non avea più riparo; chi l’avea commessa ne godeva il frutto; una rigorosa penitenza potea cancellarla, ed innalzare il peccatore agli onori di un Santo; ma l’inflessibile Patriarca ricusò di additar vie di espiazione, o di concedere alcuna speranza di pietà celeste al colpevole, e solamente condiscese a rispondere che ad un sì atroce delitto una straordinaria espiazione voleasi. „È necessario ch’io rassegni l’Impero?„ sclamò Michele, rimettendo, o facendo l’atto di rimettere la spada imperiale. E già Arsenio portava la mano a questo pegno della Sovranità; ma non tardò ad accorgersi che l’Imperatore non si sentiva inclinato a pagare a sì caro prezzo l’assoluzione implorata1; per lo che acceso di sdegno il Prelato cercò la sua cella, lasciando il mo-

  1. Il delitto e la scomunica di Michele vengono raccontati con imparzialità da Pachimero (l. III, c. 10, 14, 19 ec.) e da Gregoras (l. IV, cap. 4). Essi dovettero la libertà alla confessione e alla penitenza del principe.