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dell'impero romano cap. liii. 485

quenti1, sono i più lontani dagli esemplari con cui voleano gareggiare. Al nostro gusto e alla ragione, fann’urto in ogni pagina una scelta di parole ampollose e andate in disuso, un fraseggiare pesante e intralciato, una incoerenza di concetti, uno studio puerile d’ornamenti falsi o improprii, e gli stenti di questi scrittori per innalzarsi, per abbagliare il lettore, e coprir d’esagerazione e d’oscurità un’idea triviale. Nella prosa cercan sempre il brio poetico, e la poesia è sempre inferiore alla scipitezza della prosa. Le muse della tragedia, della epopea e del poema lirico stavansi taciturne e spoglie d’onore; i Bardi di Costantinopoli non si segnalavano al più che con un enigma o un epigramma, con un panegirico o una novella; trascuravano persino le regole della prosodia, e, pieni l’orecchio della melodia Omerica, confondeano tutte le misure di piedi e di sillabe in quei miserabili accordi, che ebbero nome di versi politici o di città2. L’ingegno de’ Greci era inceppato da una superstizione vile e imperiosa, che stende il suo dominio intorno alla sfera delle scienze e delle arti. Si smarriva il giudizio nelle controversie metafisiche: colla credenza e le visioni e i miracoli, avean perduto tutti i principii della

  1. Il Ducange, per criticare il gusto degli autori bisantini (Praef. Gloss. graec., p. 17), accumula le autorità d’Aulio Gellio, di Girolamo Petronio, di Giorgio Amartolo, e di Longino, che davano ad un’ora il precetto e l’esempio.
  2. I versus politici, quei prostituti, che, come dice Leone Allazio, per la loro facilità si danno in braccio a tutti, aveano per lo più quindici sillabe; furono usati da Costantino Manasse, da Giovanni Tzetze ec. (V. il Ducange, Gloss. latin., t. III, part. I, p. 345, 346, ediz. di Basilea, 1762).