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dell'impero romano cap. l 33

orgogliosamente seguivano il libero impulso della compassione e della benevolenza.

Gli Arabi1, simili agl’Indiani in questo, adoravano il sole, la luna, le stelle, superstizione affatto naturale, che pur fu quella dei primi popoli. Pare che quegli astri luminosi offrano in cielo l’immagine visibile della Divinità: il numero e la distanza loro danno al filosofo, come al volgo, l’idea di uno spazio illimitato; sta un’impronta d’eternità su que’ globi che non sembrano soggetti nè a corruzione, nè a deperimento, e pare che il loro movimento regolare annunci un principio di ragione o d’istinto, e la loro reale o immaginaria influenza mantiene l’uomo nella vana idea che oggetto speciale delle lor cure sieno la terra e i suoi abitatori. Babilonia coltivò l’astronomia come una scienza, ma non aveano gli Arabi altra scuola, nè altra specola fuorchè un cielo limpido, e un territorio tutto piano. Ne’ lor viaggi notturni prendeano a guida le stelle; mossi da curiosità, o da divozione, ne aveano imparato i nomi, le situazioni relative e il luogo del cielo ove comparivano ogni giorno: dall’esperienza aveano appreso a dividere in ventotto parti lo Zodiaco della luna e a benedire le costellazioni che versavano piogge benefiche sull’assetato deserto. Non potea l’impero di que’ corpi raggianti stendersi al di là della sfera

  1. Tutto quello che ora può sapersi dell’idolatria degli Arabi antichi si trova in Pocock, (Specim., p. 89, 136, 163, 164). La sua profonda erudizione è stata interpretata in modo ben chiaro e conciso dal Sale (Discours prélim., p. 14-24); e l’Assemani (Bibl. orient., t. IV, p. 580-590) ha aggiunto annotazioni preziose.