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dell'impero romano cap. l 29

di dialetto che si notano fra le varie tribù, sono pruova della loro independenza1, e tutte, dopo il nativo idioma, preferiscono quello semplice e chiaro della Mecca. Nell’Arabia, siccome già nella Grecia, la lingua ha fatto più rapidi progressi che non i costumi; ottanta erano le parole per significare il mele, dugento per denotare il serpente, cinquecento per un lione, mille per una spada, in un tempo che questo copioso vocabolario non si conservava ancora che nella memoria d’un popolo illetterato. Nelle iscrizioni de’ monumenti degli Omeriti si trovano caratteri mistici e non usati, ma le lettere cufiche le quali sono il fondamento dell’alfabeto moderno, inventate furono sulle rive dell’Eufrate, e poco dopo introdotte alla Mecca da un forestiero, che quivi si domiciliò dopo la nascita di Maometto. L’eloquenza naturale degli Arabi era estranea alle regole grammaticali, poetiche, e rettoriche, ma avevan essi gran sagacità, ricca fantasia, frasi energiche e sentenziose2; i loro discorsi composti, pronun-

  1. Arriano, che vivea nel secondo secolo, accenna (in Periplo maris Erithraei, p. 12) la differenza parziale o totale de’ dialetti Arabi. Pocock (Specimen, p. 150-154), Casiri (Bibl. hispano-arabica, t. I, p. 1, 83, 292; tom. II, p. 25, ec.) e Niebuhr (Descript. de l’Arabie, p. 72-86) hanno minutamente trattato di ciò che risguarda l’alfabeto e la lingua degli Arabi; ma io trascorro leggermente su questa materia, non prendendo io diletto a ripetere da pappagallo parole che non intendo.
  2. Il Voltaire ha inserito nel suo Zadig una Novella familiare (il Cane ed il Cavallo) per provare l’accortezza naturale degli Arabi (d’Herbelot, Bibl. orient. p. 120, 121; Gagnier, Vie de Mahomet, t. I, p. 37-46); ma d’Arvieux, o piuttosto La Roque (Voyage de la Palestine, p. 92), ha