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loro sapienza e integrità: il poter loro si divise col patrimonio, e lo scettro passò dagli zii del Profeta al ramo cadetto della tribù de’ Koreishiti. Adunavano il popolo nelle grandi occasioni, e poichè non si guida il genere umano se non per la forza o la persuasione, ne viene che l’uso e la celebrità dell’arte oratoria presso gli Arabi è la più chiara pruova della lor libertà pubblica1. Ma il semplice edifizio della lor libertà era ben diverso dalla struttura dilicata e artificiale delle repubbliche greche e romana, ove ogni cittadino aveva una parte indivisa de’ dritti civili e politici della Comunità. In un sistema di società men complicato, gode la nazione Araba la libertà, perciò che ciascheduno de’ figli suoi aborre dal sottomettersi vilmente alla volontà d’un padrone. Il cuore dell’Arabo è guernito delle austere virtù del coraggio, della pazienza e della sobrietà; coll’amore per la independenza vien contraendo l’abitudine di dominare sè stesso, e la tema del disonore sbandisce da lui lo spavento pusillanime delle fatiche, de’ pericoli, della morte. Il suo contegno denota la gravità del suo pensare; parla adagio, e il suo discorso è sensato e conciso; ride poco, e non ha altro gesto che quello di accarezzare la propria barba, rispettabile simbolo della virilità; pieno del sentimento di sè medesimo, tratta leggermente gli eguali, e senza soggezione i superiori2. La libertà dei

  1. Non gloriabantur antiquitus Arabes, nisi gladio, hospite, et eloquentia (Sephadius, apud Pocock, Specimen, p. 161, 162.) Solo co’ Persiani avevano comune il dono della parola; e gli Arabi sentenziosi avrebbero probabilmente sdegnato la schietta e sublime dialettica di Demostene.
  2. Debbo rammentare al lettore che d’Arvieux, d’Her-