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dell'impero romano cap. l 111

nire le ostilità di Eraclio, e dichiarò guerra solennemente a’ Romani, senza cercare di nascondere le fatiche ed i rischi di tale impresa1. Erano scorati i Musulmani; osservarono che si difettava di danaro, di cavalli, di vittuaglie; opposero le faccende della messe, e l’ardor della state. „È ben più caldo l’inferno, disse loro incollerito il Profeta„. Non degnò poi obbligarli a servire, ma ritornato che fu, lanciò contro i più colpevoli una scomunica di cinquanta giorni. Giovò la diffalta di coloro a dare risalto maggiore al merito di Abubeker, di Othmano e de’ fidi servi che posero a rischio e vita e fortune. Diecimila cavalieri e ventimila fanti seguirono lo stendardo di Maometto. Il viaggio in fatti fu penosissimo; al tormento della sete e della fatica s’aggiunse il soffio ardente e pestilenziale de’ venti del deserto: dieci uomini montavano alternativamente uno stesso cammello, e furono stretti alla umiliante necessità di dissetarsi coll’urina di quell’utile quadrupede. A mezza strada, cioè lungi da Medina e da Damasco dieci giornate, posarono presso al bosco e alla fontana di Tabuc. Non volle Maometto procedere più innanzi; si dichiarò pago delle intenzioni pacifiche dell’imperatore d’oriente, che forse cogli apparecchi militari lo aveva già sbigottito; ma l’intrepido Caled sparse il terrore pel suo nome d’intorno a’ luoghi per cui passava; ed il Profeta riceveva gli omaggi di som-

  1. I nostri soliti storici, Abulfeda (Vit. Moham. p. 123-127) e Gagnier (Vie de Mahomet, t. III, pag. 147-163) espongono l’impresa di Tabuc; ma per fortuna possiamo per questa ricorrere al Corano (c. 9, p. 154-165), e alle note erudite e sagaci del Sale.