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dell'impero romano cap. xlvi. 403

ratori del fuoco, e chiamandoli co’ dolci nomi di figli e di fratelli, deplorò le pubbliche e private traversie della Nazione. I sudditi di un monarca si lasciaron persuadere che combattevano per la libertà, ed un somigliante entusiasmo passò nell’animo de’ mercenarj stranieri, i quali con eguale indifferenza dovean mirare gl’interessi di Roma o que’ della Persia. Eraclio egli stesso, coll’abilità e colla pazienza di un Centurione, inculcava i precetti della tattica, ed i soldati venivano assiduamente addestrati nell’uso delle armi, negli esercizj e nelle evoluzioni del campo. La cavalleria e l’infanteria, grave armata o leggiera, era divisa in due parti. Le trombe occupavano il centro, ed il loro suono regolava la marcia, la carica, la ritirata o l’inseguimento, l’ordine diretto o l’obbliquo, la falange profonda od estesa; e si rappresentavano le operazioni della vera guerra con fittizj combattimenti. Qualunque travaglio dall’Imperatore si prescrivesse alle truppe, vi si sommetteva con eguale severità egli stesso; il lavoro, il vitto, il sonno de’ soldati era misurato dalle inflessibili leggi della disciplina, e, senza dispregiare il nemico, essi impararono a porre un’implicita fidanza nel proprio valore e nella saggezza del lor condottiere. La Cilicia tostamente fu circondata dalle armi Persiane; ma la cavalleria loro esitò a cacciarsi dentro le gole del monte Tauro, sinchè non furono presi alle spalle dalle evoluzioni di Eraclio, il quale insensibilmente circondò la retroguardia nemica, mentre pareva presentar la sua fronte in ordine di battaglia. Mediante un falso movimento, col quale faceva le viste di minacciar l’Armenia, ei gli trasse, contro lor voglia, ad una battaglia generale. Adescati essi furono dall’artificioso disordine del suo campo; ma quando si avanzarono per