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dell'impero romano cap. xlvi. 343

province della Cappadocia. I due eserciti si scontrarono nella battaglia di Melitene: i Barbari, che oscuravano l’aere con un nembo di frecce, prolungarono la linea ed estesero le corna loro nella pianura; mentre i Romani, serrati in profondi e solidi corpi, aspettavano di aver il vantaggio nell’azzuffamento più da vicino, mediante il peso delle spade e delle aste loro. Un capitano Scita, che comandava l’ala destra, improvvisamente voltò il fianco dell’inimico, ne attaccò la retroguardia al cospetto di Cosroe, penetrò nel mezzo del campo, saccheggiò il padiglione reale, profanò il fuoco eterno, caricò una fila di cammelli colle spoglie dell’Asia, si aperse a viva forza la strada a traverso l’oste Persiana, e ritornò, intuonando cantici di vittoria, a’ suoi amici che consumato aveano il giorno in singolari conflitti od in piccioli abbattimenti di nessun rilievo. L’oscurità della notte, e la separazione dei Romani porsero al monarca Persiano l’opportunità della vendetta; egli piombò impetuosamente sopra uno de’ loro campi che prese d’assalto. Ma l’esame delle sue perdite, e la consapevolezza del suo pericolo, trassero Cosroe ad una pronta ritirata; egli arse, passando, la vuota città di Melitene; e, senza consultare la salvezza delle sue truppe, arditamente valicò l’Eufrate a nuoto sul dorso di un elefante. Dopo questa sventurata campagna, la mancanza di magazzini, e forse qualche incursione de’ Turchi, obbligarono il Re a sbandare e dividere le sue forze; i Romani rimasero padroni del campo, ed il loro generale Giustiniano, movendo a soccorso de’ ribelli Persarmeni, piantò il suo stendardo sulle rive dell’Arasse. Il gran Pompeo aveva anticamente fatto alto in distanza di tre giorni