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prosperità, e della potenza, insipido parve ogni piacere che fosse innocente; e la legge Scatinia1 strappata da un atto di violenza, insensibilmente cadde abolita pel trapassare degli anni e per la moltitudine dei rei. Questa legge riguardava lo stupro, e forse la seduzione di un giovane d’ingenui natali come un’ingiuria personale ch’essa puniva colla meschina ammenda di diecimila sesterzj, o di ottanta lire sterline: la resistenza o la vendetta della castità potea spegnere lo stupratore, ed io sono desideroso di credere che in Roma, come in Atene, il volontario ed effemminato disertor del suo sesso, fosse privato degli onori e dei diritti di cittadino2. Ma la pratica del vizio non era sconfortata dalla severità dell’opinione: l’indelebile macchia di tale nefandità era confusa colle più veniali trasgressioni della fornicazione e dell’adulterio, nè il turpe amante era esposto allo stesso disonore ch’egli imprimeva sull’uomo o sulla donna ch’egli facea partecipe del suo delitto. Da Catullo fino Giovenale3 i poeti accusano e celebrano la degenera-

    della virtù e dell’amicizia che tanto ricreava i filosofi d’Atene. Ma scelera ostendi oportet dum puniuntur, abscondi flagitia.

  1. In una istessa incertezza cadono il nome, l’epoca e le disposizioni di questa legge (Gravina, Opp. p. 432, 433; Eineccio, Hist. iur. rom. n. 108; Ernesti, Clav. Ciceron. in Indice legum). Ma devo notare per la verità che la nefanda Venus del riservato Tedesco è dall’Italiano più castigato chiamata aversa.
  2. Vedi il discorso d’Eschine contro il catamita Timarco (in Beiske, Orat. graec. t. III p. 21-184.
  3. Si presentano in folla alla mente del lettore, che ha cognizioni degli autori antichi, i nefandi passi; per me mi