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258 storia della decadenza

so i debitori che non potevan pagare, ed io ardirei di anteporre il senso letterale dell’antichità alle speciose interpretazioni dei critici moderni1. Dopo la prova giudiziale o la confessione del debito, si concedevano trenta giorni di grazia, innanzi che un Romano fosse dato in balìa del suo concittadino. In questa prigione privata, dodici oncie di riso componevano il giornaliero suo vitto: si poteva caricarlo di una catena del peso di quindici libbre; e per tre volte veniva esposto sulla piazza del mercato a sollecitare colla sua miseria la compassione de’ suoi amici e concittadini. Allo spirar di sessanta giorni, la perdita della libertà o della vita lo discioglieva dal debito. Il debitore insolvente era posto a morte, oppur venduto a schiavitù straniera di là dal Tebro: ma se parecchi creditori erano ostinati ugualmente ed inflessibili, essi potevano legalmente smembrare il corpo di lui, e satollare la propria vendetta con questo orribile spartimento. I difensori di questa legge selvaggia hanno sostenuto ch’essa doveva possentemente operare per rattener col terrore gli scioperati ed i fraudolenti dal contrarre debiti che non erano atti a pagare; ma l’esperienza dissipava l’effetto di questo terror salutevole, non trovandosi verun creditore sì crudele da esigere la pena della vita o delle membra, la quale non gli tornava ad alcuno profitto. Come i costumi di Roma vennero a poco a poco

  1. Bynkershoek (Observ. juris rom. l. 1 c. 1; in Opp. t. 1 p. 9, 10, 11) si sforza di provare che i creditori non dividevano il corpo, ma il valore del debitore insolvibile. Ma la sua interpretazione non è che una continuata metafora, e non può distruggere l’autorità romana, di Quintiliano, di Cecilio, di Favonio, e di Tertulliano. Vedi Aulo Gellio (Notti Attiche, XXI).