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dell'impero romano cap. xliv. 227

re1; ed un Senatore fu espulso per aver rimandato vergine la sua moglie, senza darne contezza a’ suoi amici, o prenderne consiglio. Ogni volta che s’intentava un processo per restituzione di dote, il Pretore, come guardiano dell’equità, esaminava la cagione ed il carattere delle parti, e con moderazione piegava la bilancia in favore della parte innocente ed offesa. Augusto, il quale collegava i poteri di entrambi i magistrati, adottò i differenti loro modi di reprimere o di punire la licenza del divorzio2. Si chiedeva la presenza di sette testimonj Romani per convalidare questo atto solenne e deliberato: se il marito s’era diportato male verso la moglie, in vece di ottenere la dilazione di due anni, era astretto a rifonder la dote immantinente o nello spazio di sei mesi: ma se intaccare ei poteva i costumi della moglie, questa scontava la sua colpa o la sua leggerezza colla perdita della sesta o dell’ottava parte della sua dote. I Principi Cristiani furono i primi che specificassero le giuste cagioni di un divorzio privato; le istituzioni loro, da Costantino fino a Giustiniano, sembrano ondeggiare tra il costume dell’Impero e i desiderj della Chiesa3; e l’autore delle Novelle troppo frequentemente

  1. Valerio Massimo (l. II c. 9). Egli, con qualche ragione, giudica il divorzio più criminoso del celibato: illo namque conjugalia sacra spreta tantum, hoc etiam iniuriose tractata.
  2. Vedi le leggi d’Augusto e de’ suoi successori in Eineccio (ad legem Papiam Poppeam, c. 19, in Opp. t. VI part. I p. 323-333).
  3. Aliae sunt leges Caesarum; aliae Christi: aliud Papinianus, aliud Paulus noster praecipit (San Gerolamo, t. I p. 198; Selden uxor ebraica, l. III c. 31 p. 847-853).