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dell'impero romano cap. xliv. 221

stica loro congiunzione di mente e di corpo. Ma dal lato della donna, questa unione era rigorosa e disuguale; ed ella rinunziava il nome ed il culto della casa paterna, per abbracciare una nuova servitù, decorata soltanto col titolo di adozione. Una finzione della legge, nè ragionevole, nè elegante, conferiva alla madre di famiglia (suo vero nome1) gli strani caratteri di sorella de’ suoi propri figli, e di figlia del suo marito o padrone, il quale era investito della pienezza del potere paterno. Il giudizio od il capriccio del marito approvava, o biasimava, o puniva la condotta della sua moglie. Egli esercitava il diritto di vita e di morte; ed era convenuto che nei casi di adulterio o di ubbriachezza la pena di morte si poteva convenientemente applicare2. Essa acquistava ed ereditava a solo profitto del suo signore; e così chiaramente una donna era definita non come una persona ma come una cosa, che mancando il titolo originale, si potea reclamarla, come gli altri immobili, stante l’uso ed il possesso di un anno intero. A Roma, il dovere coniugale, che le leggi Ateniesi e Giudaiche così scrupolosamente aveano determinato3,

  1. Aulo Gellio (Noctes Atticae XVIII, 6) presenta una ridicola definizione d’Elio Melisso, Matrona quae semel, Materfamilias quae saepius peperit, come se si trattasse d’una porcetra, o di una scropha. In seguito ne spiega il vero senso: Quae in matrimonium, vel in manum convenerat.
  2. Era anche troppo d’aver gustato il vino o portata via la chiave della cella del vino (Plinio, Storia nat. XIV, 14).
  3. Solone pretende che si abbia a soddisfare al dover coniugale tre volte la settimana. La Mishna comanda che il marito giovine e robusto, e che non affatica, vi adempia una volta al giorno. Per l’abitante di città lo fissa a due volte