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dell'impero romano cap. xliv. 219

era il predominante ed ostinato vizio dell’antichità: essa alle volte venne prescritta, sovente permessa, e quasi sempre praticata impunemente dalle nazioni che mai non nutrirono le idee dei Romani sulla potestà paterna; ed i poeti drammatici, i quali sogliono rivolgersi al cuore umano, con indifferenza rappresentano una consuetudine popolare ch’era coperta dai veli dell’economia e della compassione1. Quando il padre potea soggiogare i propri sentimenti, egli evitava, se non la censura, almeno la punizion delle leggi; e l’Impero di Roma fu lordato dal sangue dei bambini, sintantochè Valentiniano ed i suoi colleghi non ebbero compreso una tal sorta di omicidi nella lettera e nello spirito della legge Cornelia. Le lezioni della giurisprudenza2, e del Cristianesimo non erano state possenti a sradicare quella pratica disumana, sinchè i terrori della pena capitale non avvalorarono il loro influsso benigno3.

  1. Quando Cremete in Terenzio rimprovera a sua moglie di avergli disubbidito non esponendo il loro figlio, egli parla da padre e da padrone, e fa tacere gli scrupoli di una sciocca moglie. Vedi Apuleo Metam. (l. X p. 337), ediz. ad usum Delphini.
  2. L’opinione de’ giureconsulti, e la saviezza de’ magistrati, all’epoca in cui Tacito visse, avevano introdotto alcune restrizioni legali che potevano giustificare il contrasto che egli stabilisce fra i boni mores de’ Germani, e le bonae leges alibi, vale a dire a Roma (De moribus Germanorum, c. 19) Tertulliano (ad Nationes, l. 1 c. 15) confuta le sue proprie accuse, e quelle de’ suoi confratelli contro la giurisprudenza pagana.
  3. L’umana e saggia decisione del giureconsulto Paolo l. II, sententiarum, in Pandect. (l. XXV tit. 3 leg. 4) non è presentata che come un precetto morale da Gerardo Noodt