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dell'impero romano cap. xliv. 217

Pandette1. Di tutto ciò che procedeva dal padre, egli non impartiva che l’uso e riserbava l’assoluto dominio: non pertanto, se vendevansi i suoi beni, una favorevole interpretazione eccettuava la porzione de’ suoi figli dalle domande de’ venditori. Il figlio avea la proprietà di quanto acquistasse per matrimonio, per donativi, o per successione collaterale; ma il padre, a meno che ne fosse stato specialmente escluso, ne godeva l’usufrutto per tutto il tempo del viver suo. Come giusta e prudente ricompensa della militare virtù, le spoglie del nemico erano devolute al soldato, da lui solo possedute e poste in pieno suo arbitrio. Questa generosa analogia si stendeva agli emolumenti delle professioni liberali, agli stipendi del servizio pubblico, ed alla sola liberalità dell’Imperatore o dell’Imperatrice. La vita di un cittadino era meno esposta che non la sua sostanza all’abuso dell’autorità paterna. Tuttavia la sua vita potea contrariar l’interesse e le passioni di un indegno genitore: gli stessi delitti che nacquer dalla corruzione, furono più vivamente sentiti dall’umanità del secolo di Augusto, e toccò all’Imperatore di salvare dal giusto furor della moltitudine il crudele Erixone che fece morire sotto i colpi dalla frusta il proprio suo figlio2. Dalla licenza della dominazione servile, il padre Romano fu ridotto alla gravità ed alla moderazione di un giudice. La pre-

  1. Vedi in che modo il peculio dei figli si estese, ed acquistò insensibilmente una sicurezza nelle Institute (l. 11 tit. 9), le Pandette (l. XV, tit. 1; l. XII tit. 1) ed il Codice (l. IV tit. 26, 27).
  2. Seneca (De Clementia, 1, 14, 15) cita gli esempj di Erixone e d’Ario: del primo parla con orrore e fa elogi del secondo.