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dell'impero romano cap. xliv. 215

e se il bove od il figlio avea commesso un’offesa, a lui spettava la scelta di compensare il danno, o di cedere alla parte pregiudicata l’animale colpevole. Al grido dell’indigenza o dell’avarizia il padrone di una famiglia potea disporre de’ suoi figliuoli o de’ suoi schiavi. Ma la condizione di uno schiavo era molto più vantaggiosa; imperciocchè egli ricovrava l’alienata sua libertà mercè della prima manumissione. Laddove il figlio ricadeva di bel nuovo in balìa dello snaturato suo padre, il quale poteva condannarlo alla servitù una seconda ed una terza volta; e solamente dopo la terza vendita e la terza liberazione, egli rimaneva affrancato dalla potestà domestica1 di cui s’era fatto così replicato abuso. Senz’altra norma che la sua discrezione, un genitore potea punire le reali od immaginarie mancanze de’ suoi figli col flagello, colla prigionia, coll’esilio, o col mandargli in catene a lavorare ne’ campi cogl’infimi de’ suoi servi. La maestà di un padre era armata del diritto di vita e di morte2; e gli esempi di tali sanguinose esecuzioni, che spesso venivano lodate, e non punite giammai, rintracciar si possono negli annali di Roma, di là dai tempi di Pompeo e di Augusto. Nè l’età, nè il grado, nè l’uffizio consolare, nè gli onori del trionfo poteano sottrarre i più illustri cittadini ai vincoli della soggezione filia-

  1. La Trina mancipatio vien chiaramente definita da Ulpiano (frammenti X p. 591, 692, ediz. Schulting) ed ancor meglio sviluppata nelle Antichità d’Eineccio.
  2. Giustiniano (Instit. l. IV tit. 9 n. 7) rapporta e rifiuta l’antica legge che accordava a’ padri il jus necis. Se ne trovano pure altri vestigi nelle Pandette (l. XLIII tit. 29 leg. 3 n. 4), e nella Collatio legum romanarum et mosaicarum (tit. 2 n. 3 p. 189).