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166 | storia della decadenza |
Io non ripeterò la storia ben nota dei Decemviri1 i quali macchiarono colle loro azioni l’onore d’incidere sul rame, sul legno o sull’avorio le Dodici Tavole delle leggi Romane2. Dettate esse furono dal rigido e geloso spirito di un’aristocrazia, che con ripugnanza aveva ceduto alle giuste richieste del Popolo. Ma la sostanza delle Dodici Tavole si attagliava allo stato della Città; ed i Romani erano usciti dalla barbarie, poichè erano capaci di studiare e di adottare le instituzioni dei loro più colti vicini. Un savio cittadino di Efeso fu dall’invidia cacciato fuori dal suo nativo Paese. Innanzi che toccasse i lidi del Lazio, egli aveva osservato le varie forme della natura umana e della società civile. Egli compartì i suoi lumi ai legislatori di Roma, ed una statua fu innalzata nel Foro per immortalare la memoria di Ermodoro3. I
- ↑ Si paragoni Tito Livio (l. III c. 31-59) con Dionigi di Alicarnasso (l. X p. 644; XI p. 691). Quanto mai l’autore romano è conciso ed animato, ed il greco prolisso e senza vita! Non pertanto Dionigi d’Alicarnasso ha mirabilmente giudicato i grandi maestri, ed abilmente esposte le regole della composizione istorica.
- ↑ Appoggiato all’autorità degli Storici, Eineccio (Hist. J. R. l. 1, n. 26) afferma che le Dodici Tavole erano di rame, aereas. Nel testo di Pomponio si legge eboreas; e lo Scaligero ha sostituito a questa parola quella di roboreas (Bynkershoek, p. 286). Pare che siasi potuto successivamente adoperare il legno, il rame e l’avorio.
- ↑ Cicerone (Tuscul. Quaest. V, 36) parla dell’esilio di
zionandosi con un miscuglio di dorico e di greco eolico, of fri à grado a grado lo stile delle dodici Tavole, della colonna Duilliana, d'Ennio, di Terenzio e di Cicerone (Gruter. Inscript. tom. I p. 192; Scipione Maffei, Istoria diplomatica, p. 241-258; Bibl. ital. t. III,' p. 30-41, 174-205; t. XIV, p. 1-52).