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dell'impero romano cap. xxxvii. |
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stabilirono o praticarono, non erano uniformi, o perpetue; la lieta solennità della Pentecoste veniva bilanciata dalla straordinaria mortificazione della Quaresima; il fervore de’ nuovi monasteri appoco appoco s’andò rilassando, ed il vorace appetito de’ Galli non poteva imitare la paziente e temperata virtù degli Egizi1. I discepoli d’Antonio, e di Pacomio eran contenti della lor giornaliera porzione2 di dodici once di pane, o piuttosto di biscotto3, ch’essi dividevano ne’ due frugali pasti del mezzogiorno, e della sera. Stimavasi un merito, e quasi un dovere, l’astenersi da’ vegetabili cotti, che si davano al refettorio, ma la straordinaria bontà dell’Abbate alle volte accordava loro il lusso del formaggio, delle frutte, della
- ↑ Edacitas in Graecis gula est, in Gallis natura. (Dialog. I. c. 4. pag 521). Cassiano chiaramente confessa, che non si può imitare nella Gallia la perfetta norma dell’astinenza, per causa dell’aerum temperies, e qualitas nostrae fragilitatis (Inst. 4. 11). Fra le regole occidentali, quella di Colombano è la più austera; egli era stato educato in mezzo alla povertà dell’Irlanda, forse tanto rigida ed inflessibile, quanto l’astinente virtù dell’Egitto. La regola d’Isidoro di Siviglia è la più dolce: nelle feste concede l’uso della carne.
- ↑ „Quelli, che bevono solamente acqua, e non hanno liquore nutritivo, dovrebbero avere almeno una libbra e mezza (24 once) di pane il giorno„ Stat. delle Carceri p. 40. di Howard.
- ↑ Vedi Cassiano Collat. l. II. 19, 20, 21. Ai piccoli pani, o biscotti di sei once l’uno, si diede il nome di Paximacia (Roswayde Onomastic. pag. 1045), Pacomio però concesse a’ suoi Monaci qualche estensione nella quantità del loro cibo; ma gli faceva lavorare in proporzione di quello che mangiavano (Pallad. in hist. Lausiac. c. 38, 39. in vit. Patr. l. VIII. p. 736. etc.).