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dell'impero romano cap. xxxix. | 247 |
pubblici onori e nelle relazioni private, nella cultura delle scienze e nella coscienza della propria virtù, avrebbe potuto chiamarsi felice, se questo precario epiteto si potesse applicare all’uomo con sicurezza prima ch’ei giunga al fin della sua vita.
Un Filosofo, liberale della sua ricchezza e parco del suo tempo, doveva essere insensibile alle comuni lusinghe dell’ambizione, alla sete dell’oro e degl’impieghi, e può in qualche modo credersi all’asserzione di Boezio, ch’egli aveva con ripugnanza ubbidito al divino Platone, che ad ogni virtuoso Cittadino impone l’obbligo di liberar lo Stato dall’usurpazione del vizio e dell’ignoranza. Quanto alla purità della pubblica sua condotta, se ne rimette alla memoria dei suoi Concittadini. Aveva la sua autorità frenato l’orgoglio e l’oppressione degli Ufiziali regj, ed aveva la sua eloquenza liberato Pauliano da’ cani del Palazzo. Egli aveva sempre compassionato, e spesse volte sollevato le miserie de’ Provinciali, i beni de’ quali erano esausti dalla pubblica e privata rapacità; ed il solo Boezio ebbe il coraggio d’opporsi alla tirannia de’ Barbari, insuperbiti dalla conquista, eccitati dall’avarizia, ed incoraggiati, com’ei si duole, dall’impunità. In queste onorevoli battaglie il suo spirito era superiore alle considerazioni del pericolo, e forse anche della prudenza, e possiamo apprendere dall’esempio di Catone, che un carattere di pura ed inflessibil virtù e il più capace di far lega col pregiudizio, di esser riscaldato dall’entusiasmo, e di confondere le inimicizie private con la pubblica giustizia. Il discepolo di Platone poteva esagerare le debolezze della Natura, e le imperfezioni della Società; e la forma d’un Governo gotico anche la più dolce, e fino lo