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dell'impero romano cap. xxxvii. | 11 |
i tempj, i pubblici edifizi, e fino le mura a pii e caritatevoli usi; ed il Vescovo, che poteva predicare in dodici chiese, contò diecimila maschi, e ventimila femmine della professione monastica1. Gli Egizi, che si gloriavano di tal maravigliosa rivoluzione, eran disposti a sperare ed a credere, che il numero de’ Monaci fosse uguale al resto del Popolo2; e la posterità potrebbe ripetere quel detto, che fu anticamente applicato agli animali sacri del medesimo paese, cioè, che in Egitto era meno difficile di trovare un Dio, che un uomo.
[A. 341-328] Atanasio introdusse in Roma la cognizione, e la pratica della vita monacale; ed i discepoli d’Antonio, che accompagnarono il loro Primate alla sacra soglia del Vaticano, aprirono una scuola di questa nuova filosofia. Lo strano e selvaggio aspetto di quegli Egizi a principio eccitò dell’orrore o del disprezzo, ma in seguito dell’applauso, ed un’ardente imitazione. I Senatori, e specialmente le matrone, trasformarono i palazzi e le ville loro in case religiose, ed il ristretto istituto di sei Vestali restò ecclissato da frequenti monasteri, che si edificarono sulle rovine degli antichi Tempj, ed in mezzo al Foro Romano3. Un giovane
- ↑ Rufin. c. 5, in vit. Patrum p. 459. Ei la chiama Civitas ampla valde, et populosa, e vi conta dodici chiese, Strabone (lib. XVII. pag. 1166), ed Ammiano (XXII. 16) hanno fatto onorevol menzione d’Ossirinco, gli abitanti di cui adoravano un piccol pesce in un magnifico Tempio.
- ↑ Quanti populi habentur in urbibus, tantae pene habentur in desertis multitudines monachorum. Rufin. c. 7, in vit. Patr. p. 461. Esso applaudisce al fortunato cambiamento.
- ↑ Si fa menzione accidentalmente dell’introduzione della