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lor leggi e sostanze: a costringere, in tal momento di pubblico pericolo, gli artefici ad uscire dalle botteghe, ed i filosofi dalle scuole; a svegliar l’indolente cittadino dal suo sonno di piacere, e ad armare, per protegger l’agricoltura, le mani de’ laboriosi coltivatori. Alla testa di tali truppe, che avrebbero meritato il nome e dimostrato lo spirito di Romani, anima il figlio di Teodosio ad affrontare una stirpe di Barbari che erano privi d’ogni real coraggio, ed a non posar le armi, finattantochè non li avesse scacciati nella solitudine della Scizia, o li avesse ridotti a quello stato di servitù ignominiosa, che i Lacedemoni anticamente imposero agli Eloti lor prigionieri1. La Corte d’Arcadio approvò lo zelo, applaudì all’eloquenza, e trascurò il consiglio di Sinesio. Forse il filosofo, che parlò all’Imperator dell’Oriente con quel linguaggio della ragione e della virtù, che avrebbe usato con un Re di Sparta, non avea pensato a formare un sistema praticabile, coerente all’indole ed alle circostanze d’un secolo degenerato. Forse l’orgoglio de’ Ministri, gli affari de’ quali erano rade volte interrotti dalla riflessione, potè rigettare come inopportuna e visionaria ogni proposizione, che sopravanzava la misura della capacità loro, e deviava dalle formalità e dagli usi del loro uffizio. Mentre l’orazione di Sinesio, e la caduta de’ Barbari, formavano gli argomenti delle comuni conversazioni, si pubblicò un editto a Costantinopoli, che dichiarava la promozione d’Alarico al posto di Generale dell’Illirico d’Oriente. I Provinciali, e gli Alleati Romani, che avevano rispettato la fede de’ trattati, a ragione sdegnaronsi, che fosse così liberalmente

  1. Sinesio, de Regno p. 21-26.