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dell'impero romano cap. xxxi. 131

tribù d’Italia, vicine e nemiche della nascente città. Nella forza e nell’ardore della sua gioventù sostenne le tempeste della guerra, portò le sue armi vittoriose oltre i mari ed i monti, e riportò a casa trionfali allori da ogni parte del globo. Finalmente avanzandosi verso la vecchiezza, ed alle volte vincendo col solo terrore del suo nome, cercò i vantaggi della quiete e della tranquillità. Quella venerabil città, che aveva posto il piede sul collo alle più fiere Nazioni, e stabilito un sistema di leggi, perpetue custodi della giustizia e della libertà, si contentò, come una saggia e doviziosa madre, di affidare a’ Cesari, favoriti suoi figli, la cura di governare l’ampio suo patrimonio1. Successe ai tumulti della Repubblica una sicura e profonda pace, simile a quella che si era goduta sotto il regno di Numa; e frattanto Roma era sempre adorata come regina della terra, e le sottoposte nazioni tuttavia rispettavano il nome del Popolo e la maestà del Senato. Ma questo nativo splendore (prosegue Ammiano) viene oscurato e macchiato dalla condotta di alcuni nobili, che dimenticatisi della lor dignità e di quella del loro paese, s’attribuiscono un’illimitata licenza di follìa e di vizi. Contendono fra loro intorno all’inutile vanità de’ titoli e de’ cognomi; e curiosamente scelgono o inventano i più alti e sonori nomi

  1. Claudiano, il quale pare che avesse letto l’istoria di Ammiano, parla di questa gran rivoluzione in uno stile assai meno cortigianesco:

    Postquam jura ferox in se communia Caesar
    Transtulit, et lapsi mores desuetaque priscis
    Artibus, in gremium pacis servile recessi.

    De bello Gildonico, 49.