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dell'impero romano cap. xxxi. |
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mento delle quattromila libbre d’oro, che dal Senato Romano gli erano state accordate o in premio de’ suoi servigi, o per acquietarne il furore. La sua decente fermezza era sostenuta da un’artificiosa moderazione, che contribuì al buon successo dei suoi disegni. Ei richiedeva una giusta e ragionevol soddisfazione; ma dava le più forti sicurezze, che appena l’avesse ottenuta, si sarebbe subito ritirato. Ricusò di prestar fede a’ Romani, se non gli si mandavano per ostaggi al campo Ezio e Giasone, figli di due grandi Ufiziali dello Stato; ma offrì di dare in cambio di essi molti de’ più nobili giovani della nazione Gotica. I Ministri di Ravenna risguardarono la modestia d’Alarico come una sicura prova di debolezza e di timore. Sdegnarono d’entrare in trattato, non meno che d’adunare un esercito; e con una temeraria fiducia, che procedeva solo dall’ignoranza, in cui erano dell’estremo pericolo, irreparabilmente perderono i decisivi momenti sì della pace che della guerra. Mentre aspettavano con caparbio silenzio, che i Barbari lasciassero i confini dell’Italia, Alarico passò con ardita e rapida marcia le Alpi ed il Po; precipitosamente saccheggiò le città d’Aquileia, d’Altino, di Concordia e di Cremona, che cederono alle sue armi; accrebbe le proprie forze coll’aumento di trentamila ausiliari; e senza incontrare in campo un solo nemico, s’avanzò fino all’orlo della palude, che difendeva l’inaccessibile residenza dell’Imperatore Occidentale. Invece di tentare senza speranza l’assedio di Ravenna, il prudente Capitano de’ Goti passò a Rimini, estese le sue devastazioni lungo le coste marittime dell’Adriatico, e disegnò la conquista dell’antica padrona del Mondo. Un eremita Italiano, di cui gli stessi Barbari veneravan la santità