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dell'impero romano cap. xxviii. 387

mai con legge positiva tutti i suoi sudditi ad immediatamente abbracciare e praticar la religione del proprio Sovrano1. Non era divenuta la professione del Cristianesimo una qualità essenziale per godere i diritti civili della società; nè s’era imposto alcun peso particolare ai Settarj, che creduli ammettevano le favole d’Ovidio, e rigettavano ostinati i miracoli del Vangelo. Il palazzo, le scuole, l’esercito ed il senato eran pieni di devoti e dichiarati Pagani; essi ottenevano senza distinzione gli onori civili e militari dell’Impero. Teodosio distinse il suo generoso riguardo per la virtù e pei talenti, con impartire a Simmaco la dignità consolare2, e con esprimere la sua personal amicizia per Libanio3; e i due più eloquenti apologisti del Paganesimo non furon mai sollecitati o a mutare o a dissimular le religiose lor opinioni. Era permessa ai Pagani la più licenziosa libertà di parlare e di scrivere; gli istorici e filosofici avanzi d’Eunapio, di Zosimo4

  1. Libanio suggerisce la forma di un editto di persecuzione, che Teodosio avrebbe potuto fare (pro Templis p. 32.); scherzo imprudente, ed esperienza pericolosa! Qualche altro Principe potrebbe aver preso il suo consiglio.
  2. Denique pro meritis terrestribus aeque rependens
    Munera, sacricolis summos impertit honores
    . . . . . . . . . . . . .
    Ipse magistratum tibi Consulis, ipse tribunal
    Contulit.
    (Prudent. in Symmach. I. 617. ec.)

  3. Libanio (pro Templis c. 32) s’insuperbisce, che Teodosio distinguesse in tal modo uno, che anche alla sua presenza giurasse per Giove. Pure questa presenza non sembra esser altro che una figura rettorica.
  4. Zosimo, che chiama se stesso Conte ed Ex-avvocato del Tesoro, con indecente e parzial bacchettoneria maltratta i Principi Cristiani, ed eziandio il padre del proprio Sovra-